Lei, Armando

Testo: ELIA ZUPELLI
Fotografia: LEI; ARMANDO, C-JAY LIAY, VALENTINA FUSI, VITO PETRACCONE

“Io sono sopravvissuto e ringrazio il Signore per questo”. Vita, marchette, ascese, cadute e risalite di “Lei, Armando”, esegeta en travesti della Casa delle Bambole. Una Factory del piacere e della dissoluzione arrampicata al civico 5 di vicolo Rossovera, nel cuore del Carmine, allora schiumante di sesso, sangue e droga (anfetamina endovena, nel caso specifico). Anni Settanta e strade da battere, fra i fantasmi dell’AIDS: estasi e tormento, cipria e sigarette, Boudoir e sveltine promiscue, eccessi e farneticazioni. Ieri, oggi e domani. Eden di lussuria, Golgota con relativa croce e annesse stazioni, frustate, flagelli, morte e forse un giorno resurrezione, l’epopea antropologica della “Dolls House” è già diventata un libro di culto; nuovi, eccitanti progetti sono in divenire. L’amore destinato a rimanere una chimera e il coraggio di non prendersi troppo sul serio: “Perché in fondo era tutto una recita perenne…dall’inizio alla fine, da quando mettevo il tacco fuori dalla porta a quando tiravo dentro lo sgabello la sera”.

C’era Daniela, detta “la parigina”. C’erano la Cenerentola e la Bordeaux. C’erano la Giusy, la Angiolina, la Barbara, la Marina e con loro c’erano la Lea, la Fabrizia, la Sandra, la Carlotta, la Lora e la Tiria. Incipriate, imparruccate, perennemente con la sigaretta stretta fra le dita laccate di smalti intensi e tutte con l’articolo determinativo prefisso – “la”, appunto – come fosse un segno distintivo, un richiamo fenormonico, una semiotica d’appartenenza. Al club della vitalità esuberante e dirompente, esagerato e pittoresco, frivolissimo e al tempo stesso drammatico. E poi c’era Lei, Armando. C’era ieri e c’era oggi. Sempre lì, al civico 5 di vicolo Rossovera, nel cuore infiammato del Carmine, che tra la fine degli anni Sessanta e i tardi Settanta schiumava di sesso, sangue e droga, di esistenze dissolute e spesso ai margini, travolte da felicità artificiali e improvvisi strapiombi umorali. Strade difficili, strette e anguste, non per tutti. Strade da battere. Vietate ai minori, vietate ai facilmente impressionabili e ai facili moralisti. “Gli stessi che poi, ironia della sorte, capitava di ritrovarti nel letto a chiedere le peggiori cose…”. Succedeva questo e molto altro dentro e fuori la Casa delle Bambole, che durante la golden age calamitava a sé con fascino fatale decine e decine di uomini dal femmineo aspetto, creature divine vocate al peccato come angeli caduti: in poche stagioni il palazzo – cinque piani di autentica, fatiscente stravaganza – si riempì con ondate di travestiti e transessuali, trasformandosi in un bordello ante litteram, dove l’unica religione ammessa era quella del sesso a gettoni, in un’atmosfera decadente pervasa di piacere e dolore, estasi e tormento, Eden di lussuria, Golgota con relativa croce e annesse stazioni, cadute, frustate, flagelli, morte e forse un giorno resurrezione. “Allora non ci volevano, non volevano che a Brescia esistesse questa comunità che in nessun’altra città del Nord Italia, eccezion fatta per Milano, aveva trovato terreno fertile per germinare: d’altronde erano i tempi della Democrazia Cristiana” riavvolge il nastro fra sarcasmo e nostalgia Lei, Armando (soprannome: “Fantasia”), poetico e spregiudicato argonauta di questo numero moltobenista, età avvolta nel sintomatico mistero e al più qualche aiutino chirurgico, volutamente, ironicamente esibito attraverso un sorriso bianco latte, in contrasto con l’abbronzatura ai raggi ultravioletti e il fisico statuario. “Le autorità provavano in tutti i modi a fermarci: l’arresto, le multe, le diffide, il confino coatto. Ma noi ce ne fregavamo. Resistevamo”.

 Un colpo di rossetto e smack: “La prima volta che mi travestii da donna ero giovanissimo, stavo con la Lidia e la Jenny, prendevo ormoni perché volevo mi crescesse il seno. Avevo i capelli corti, biondissimi, ero bellissima, splendida. Eppure quella non era la mia aspirazione, direi più un vezzo, un divertissement”. Poi arrivò la droga: fra specchi, specchietti, letti sfatti e profumo Boudoir, nella Casa delle Bambole divampa l’anfetamina. Fix, in vena: “Per me fu una rivelazione, cambiò la scena, mi capovolse la vita. Nel vero senso della parola: l’anfetamina tirò fuori la mia parte maschile e con essa una sorprendente creatività. Iniziai a fotografare tutto quello che mi stava attorno, divenne una passione, un’ossessione. Per quasi una decina d’anni le giornate scorrevano via così: tra sesso, buchi e scatti. Non dormivamo mai”. Nel pieno degli anni Settanta la Casa delle Bambole era diventata una Factory in fermento ventiquattro ore su ventiquattro: avamposto delle marchette en travesti, laboratorio dell’arte, officina dell’insonnia. “Eravamo lì dentro anche quando esplose la bomba in piazza Loggia: scoppiarono i vetri e un po’ morimmo anche noi”. Mentre la Cenerentola e le altre ci davano dentro, dai balconi volavano gavettoni di piscio e qualche piano di sotto ladri, pusher, magnaccia e contrabbandieri si sbattevano nel porto di mare carmelitano, Lei Armando scattava, scattava, scattava. La vita tra quelle mura dissestate, i clienti che le frequentavano a migliaia, le colleghe di lavoro, le amiche di una vita, i loro sogni e i loro eccessi, i loro amori e i loro disamori (“Non puoi pretendere che una persona abbia stima di te se poi scendi a fare marchette…devi essere consapevole che finché vai in strada non potrai mai avere una storia ‘pulita’”. Con curiosità febbrile e fanciullina, amplificata dalle scariche chimiche in circolo. Foto meravigliose, pazzesche, in bianco e nero, a colori, polisex: fantastiche visioni! Molto Nan Goldin. Non a caso già al centro di svariate mostre, retrospettive e percorsi antropologici, culminati qualche anno fa nel libro-memorabilia intitolato proprio “Lei, Armando”, progetto realizzato da Dorothy Bhawl e Nicola Baroni (artista il primo, giornalista il secondo, entrambi bresciani) che hanno ridato un nuovo senso al suo pensiero stupendo. Racconteranno a proposito: “Durante una cena a casa di Armando cominciammo a sfogliare questi scrigni affascinanti che avevamo solo immaginato nelle fotografie delle grandi capitali dell’eccesso come Parigi e New York. Grazie alla sua donazione, abbiamo iniziato il processo di riqualificazione delle immagini originali, per divulgare l’essenza di questa dimensione parallela”. Leggenda urbana, luogo immaginifico e insieme reale – dove non era raro incontrare “uno stravagante cliente sempre strafatto di cocaina che pagava milioni di lire per interpretare le follie di ‘Salò o le centoventi giornate di Sodoma’” – al centro di un racconto mitologico destinato a nuovi sviluppi: “Stiamo lavorando a un progetto molto importante per valorizzare il mio archivio e farlo conoscere in tutta Italia” profetizza Armando. “Ci sarà una pubblicazione fotografica con la casa editrice NERO dedicata alla Casa delle Bambole e una grande mostra che partirà da Brescia e farà tappa in diverse città italiane. Il progetto è portato avanti dallo stesso Nicola Baroni, Andrea Grasselli, che è al lavoro anche su un film ‘dedicato’ intitolato ‘Dollhouse’, e dall’associazione LINE culture, in collaborazione con il MIT di Bologna. Digitalizzeremo tutte le mie tremila fotografie, creeremo un fondo consultabile da tutti e stiamo studiando una manifestazione che coinvolgerà diversi luoghi della città, tra gli altri Carme e Macof. Mi piacerebbe che l’archivio in futuro resti in città”. Magari al Carmine. Dove tuttora Lei, Armando vive e lavora “in proprio, solo per soddisfare il mio piacere e quello dei miei partner”.

Sex worker, secondo il vocabolario 2023. “Una volta otto su dieci erano attivi, oggi è il contrario: otto su dieci sono passivi. Antropologicamente è cambiato tutto, ma per me è meglio così: è molto meno difficoltoso”, strizza l’occhio appena velato di trucco. Di quell’angolo di paradiso stupefacente che sembrava uscito dal Greenwich Village e dalle canzoni di Lou Reed, dove la vecchia guardia transessuale ha scritto la sua storia usando ormoni impazziti come inchiostro e lenzuola sporche come pagine di un diario neorealista, oggi sono rimasti giusto i muri e le facciate. Ma la sua anima continua a vivere e rivivere, assieme ai gemiti di orgasmi e disperazione che provenivano dalle stanze di vicolo Rossovera. “Dopo dieci anni senza mai tirare il fiato, escluse pause ‘occasionali’ per qualche trasferta lavorativa estiva, una breve (e ingiusta) parentesi in galera e due anni di matrimonio poi naufragato, pensai che sarebbe stato meglio staccare la spina, l’alternativa era crepare…anche perché nel mentre era arrivata l’Aids: tantissime di noi si ammalarono e morirono, ma un pezzetto di ognuna è conservato come un ricordo indelebile nelle mie fotografie, assieme alle loro teste agghindate come opere d’arte, tirate e cotonate, con la birra al posto della lacca per tenere insieme quelle vistose acconciature. Io sono sopravvissuto e ringrazio il Signore per questo. E quando ripenso a quelle notti bianche, come cantava Patty Pravo, un po’ mi commuovo e un po’ sorrido. Perché in fondo era tutto una grande, grandissima recita, una perenne messa in scena: dall’inizio alla fine, da quando mettevo il tacco fuori dalla porta a quando tiravo dentro lo sgabello la sera”.

C’era Daniela, detta “la parigina”. C’erano la Cenerentola e la Bordeaux. C’erano la Giusy, la Angiolina, la Barbara, la Marina e con loro c’erano la Lea, la Fabrizia, la Sandra, la Carlotta, la Lora e la Tiria. Incipriate, imparruccate, perennemente con la sigaretta stretta fra le dita laccate di smalti intensi e tutte con l’articolo determinativo prefisso – “la”, appunto – come fosse un segno distintivo, un richiamo fenormonico, una semiotica d’appartenenza. Al club della vitalità esuberante e dirompente, esagerato e pittoresco, frivolissimo e al tempo stesso drammatico. E poi c’era Lei, Armando. C’era ieri e c’era oggi. Sempre lì, al civico 5 di vicolo Rossovera, nel cuore infiammato del Carmine, che tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta schiumava di sesso, sangue e droga, di esistenze dissolute e spesso ai margini, travolte da felicità artificiali e improvvisi strapiombi umorali. Strade difficili, strette e anguste, non per tutti. Strade da battere.

Vietate ai minori, vietate ai facilmente impressionabili e ai facili moralisti. “Gli stessi che poi, ironia della sorte, capitava di ritrovarti nel letto a chiede le peggiori cose…”. Succedeva questo e molto altro dentro e fuori la Casa delle Bambole, che durante la golden age calamitava a sé con fascino fatale decine e decine di uomini dal femmineo aspetto, creature divine vocate al peccato come angeli caduti: in poche stagioni il palazzo – cinque piani di autentica, fatiscente stravaganza – si riempì con ondate di travestiti e transessuali, trasformandosi in un bordello ante litteram, dove l’unica religione ammessa era quella del sesso a gettoni, in un’atmosfera decadente pervasa di piacere e dolore, estasi e tormento, Eden di lussuria, Golgota con relativa croce e annesse stazioni, cadute, frustate, flagelli, morte e forse un giorno resurrezione. “Allora non ci volevano, non volevano che a Brescia esistesse questa comunità che in nessun’altra città del Nord Italia, eccezion fatta per Milano, aveva trovato terreno fertile per germinare: d’altronde erano i tempi della Democrazia Cristiana” riavvolge il nastro fra sarcasmo e nostalgia Lei, Armando (che di cognome fa Borno e di soprannome Fantasia), poetico e spregiudicato argonauta di questo numero moltobenista, età avvolta nel sintomatico mistero e al più qualche aiutino chirurgico, volutamente, ironicamente esibito attraverso un sorriso bianco latte, in contrasto con l’abbronzatura ai raggi ultravioletti e il fisico statuario. “Le autorità provavano in tutti i modi a fermarci: l’arresto, le multe, le diffide, il confino coatto. Ma noi ce ne fregavamo. Resistevamo”. Un colpo di rossetto e smack: “La prima volta che mi travestii da donna ero giovanissimo, stavo con la Lidia e la Jenny, prendevo ormoni perché volevo mi crescesse il seno. Avevo i capelli corti, biondissimi, ero bellissima, splendida. Eppure quella non era la mia aspirazione, direi più un vezzo, un divertissement”. Poi arrivò la droga: fra specchi, specchietti, letti sfatti e profumo Boudoir, nella Casa delle Bambole divampa l’anfetamina. Fix, in vena: “Per me fu una rivelazione, cambiò la scena, mi capovolse la vita. Nel vero senso della parola: l’anfetamina tirò fuori la mia parte maschile e con essa una sorprendente creatività. Iniziai a fotografare tutto quello che mi stava attorno, divenne una passione, un’ossessione. Per quasi una decina d’anni le giornate scorrevano via così: tra sesso, buchi e scatti. Non dormivamo mai”.

Nel pieno degli anni Settanta la Casa delle Bambole era diventata una Factory in fermento ventiquattro ore su ventiquattro: avamposto delle marchette en travesti, laboratorio dell’arte, officina dell’insonnia. “Eravamo lì dentro anche quando esplose la bomba in piazza Loggia: scoppiarono i vetri e un po’ morimmo anche noi”. Mentre la Cenerentola e le altre ci davano dentro, dai balconi volavano gavettoni di piscia e qualche piano di sotto ladri, pusher, magnaccia e contrabbandieri si sbattevano nel porto di mare carmelitano, Lei Armando scattava, scattava, scattava. La vita tra quelle mura dissestate, i clienti che le frequentavano a migliaia, le colleghe di lavoro, le amiche di una vita, i loro sogni e i loro eccessi, i loro amori e i loro disamori (“Non puoi pretendere che una persona abbia stima di te se poi scendi a fare marchette…devi essere consapevole che finché vai in strada non potrai mai avere una storia ‘pulita’”. Con curiosità febbrile e fanciullina, amplificata dalle scariche chimiche in circolo. Foto meravigliose, pazzesche, in bianco e nero, a colori, polisex: fantastiche visioni! Molto Nan Goldin. Non a caso già al centro di svariate mostre, retrospettive e percorsi antropologici tipo “The Dolls house”, culminati qualche anno fa nel libro-memorabilia intitolato proprio “Lei, Armando”, progetto realizzato da Dorothy Bhawl e Nicola Baroni (artista il primo, giornalista il secondo, entrambi bresciani) che hanno ridato un nuovo senso al suo pensiero stupendo. Racconteranno a proposito: “Durante una cena a casa di Armando cominciammo a sfogliare questi scrigni affascinanti che avevamo solo immaginato nelle fotografie delle grandi capitali dell’eccesso come Parigi e New York. Grazie alla sua donazione, abbiamo iniziato il processo di riqualificazione delle immagini originali, per divulgare l’essenza di questa dimensione parallela”. Leggenda urbana, luogo immaginifico e insieme reale – dove non era raro incontrare “uno stravagante cliente sempre strafatto di cocaina che pagava milioni di lire per interpretare le follie di ‘Salò o le centoventi giornate di Sodoma’” – al centro di un racconto mitologico destinato a nuovi sviluppi: “Stiamo lavorando a un progetto molto importante per valorizzare il mio archivio e farlo conoscere in tutta Italia” profetizza Armando. “Ci sarà una pubblicazione fotografica con la casa editrice NERO dedicata alla Casa delle Bambole e una grande mostra che partirà da Brescia e farà tappa in diverse città italiane. Il progetto è portato avanti dallo stesso Nicola Baroni, Andrea Grasselli e dall’associazione LINE culture, in collaborazione con il MIT di Bologna.

Digitalizzeremo tutte le mie tremila fotografie, creeremo un fondo consultabile da tutti e stiamo studiando una manifestazione che coinvolgerà diversi luoghi della città, tra gli altri Carme e Macof. Mi piacerebbe che l’archivio in futuro resti in città”. Magari al Carmine. Dove tuttora Lei, Armando vive e lavora “in proprio, solo per soddisfare il mio piacere e quello dei miei partner”. Sex worker, secondo il vocabolario 2023. “Una volta otto su dieci erano attivi, oggi è il contrario: otto su dieci sono passivi. Antropologicamente è cambiato tutto, ma per me è meglio così: è molto meno difficoltoso”, strizza l’occhio sempre arzillo. Di quell’angolo di paradiso stupefacente che sembrava uscito dal Greenwich Village e dalle canzoni di Lou Reed, dove la vecchia guardia transessuale ha scritto la sua storia usando ormoni impazziti come inchiostro e lenzuola sporche come pagine di un diario neorealista, oggi sono rimasti giusto i muri e le facciate. Ma la sua anima continua a vivere e rivivere, assieme ai gemiti di orgasmi e disperazione che provenivano dalle stanze di vicolo Rossovera. “Dopo dieci anni senza mai tirare il fiato, escluse pause ‘occasionali’ per qualche trasferta lavorativa estiva, una breve (e ingiusta) parentesi in galera e due anni di matrimonio poi naufragato, pensai che sarebbe stato meglio staccare la spina, l’alternativa era crepare…anche perché nel mentre era arrivata l’Aids: tantissime di noi si ammalarono e morirono, ma un pezzetto di ognuna è conservato come un ricordo indelebile nelle mie fotografie, assieme alle loro teste agghindate come opere d’arte, tirate e cotonate, con la birra al posto della lacca per tenere insieme quelle vistose acconciature. Io sono sopravvissuto e ringrazio il Signore per questo. E quando ripenso a quelle notti bianche, come cantava Patty Pravo, un po’ mi commuovo e un po’ sorrido. Perché in fondo era tutto una grande, grandissima recita, una perenne messa in scena: dall’inizio alla fine, da quando mettevo il tacco fuori dalla porta a quando tiravo dentro lo sgabello la sera”.