La Voce del Maestro

Fotografie: GIULIA MARTINELLI, VITO PETRACCONE

Nell’epoca del politically correct nauseabondo, Sandro Gibellini, chitarrista con la luccicanza, affonda il riff senza filtro: “Sono sincero, Battiato non mi è mai piaciuto. Amo Gaber, Battisti, Dalla, ma anche Neffa e Samuele Bersani. La trap? Diciamo che non è nelle mie corde”. Dalla folgorazione rock’n’roll all’epica jazz, passando per i dischi con Mina, la consacrazione internazionale e altre memorie ad altezza palco, cronistoria di un incontro ravvicinato in una sera gardesana di inizio autunno. “Lo dico sempre ai miei allievi…Oggi vivere di musica è complicato, ma non serve abbattersi: bisogna solo essere più bravi di una volta”.

Una folgorazione estemporanea, a 33 giri: “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” dei Beatles, “Their Satanic Majesties Request” degli Stones, un’antologia di Jimi Hendrix, “The best of Cream”.

Gran botta!

La scintilla definitiva tra Sandro Gibellini e il jazz, però, doveva ancora scoccare. Nel mentre altre scosse d’adrenalina ad alto voltaggio sarebbero venute: blues, prog, il rock’n’roll, Led Zeppelin, Deep Purple, Emerson Lake & Palmer e naturalmente i Pink Floyd, “che vidi anche dal vivo a Brescia nel mitico concerto del 1971 al PalaEib”. Ma anche l’inatteso catodico, altri tempi del resto, quando sul piccolo schermo transitavano personaggi grandiosi e storie ai confini della realtà, prima della débâcle postmoderna.

“In effetti sembra incredibile a ben pensarci ma la prima ‘buona musica’ in Italia arrivò grazie alla televisione. Il primo ricordo che conservo fu un Carosello con un pezzo dei Beach Boys, intorno alla metà degli anni Sessanta. Poi una sigla di un programma chiamato TvSette che era ‘Intermission Riss’, dell’orchestra di Stan Kenton: non sapevo cosa fosse ma mi piaceva da pazzi. Avrei scoperto poi che quello era jazz…”.

Da lì in avanti, il destino dell’allora poco più che fanciullo (futuro) chitarrista originario di Pralboino, dal cuore della Bassa bresciana più nebbiosa alla ribalta internazionale, non sarà più lo stesso: si accenderà con impeto propellente e inarrestabile. Vivido, nitido, cristallino come il suo talento anche in una fresca serata d’inizio autunno a Moniga del Garda, complice l’atmosfera del Portobello Road Pub, altrettanto inossidabile locale che ogni sera serve birre alla spina senza soluzione di continuità e cibi propiziatori per mitigarne i collaterali effetti. Al resto pensa la chitarra, che Gibellini pizzica con parsimonia. Per una sottile timidezza, forse. Di certo, per via d’una sorta di devota reverenza all’essenza più profonda della musica. Della musa. Come premette: “Mio padre, persona mitissima, si arrabbiava solo quando qualcuno sbagliava a suonare. Non lo faceva per cattiveria, ma per rispetto nei confronti della musica: trattare bene la musica è un argomento molto, molto serio, oserei dire fondamentale. Ciò che mi importa veramente è come un musicista tratta la musica: da quello si capiscono molte cose”. Tutt’altro che un caso dunque se fu proprio il padre, musicista dilettante che suonava il mandolino e strimpellava la chitarra, a innescare nell’adolescenzial-Gibellini la passione della vita. “Un giorno, incuriosito, tirai giù dall’armadio la sua chitarra e cominciai a suonarla da solo, pur sapendo meno di zero”.

Le prime cose da autodidatta, poi lo studio, l’approfondimento serrato: il viaggio era già nel vivo.

“Ho cominciato provando le melodie su una sola nota. Ho preso lezioni, ma avevo problemi col solfeggio. L’ho reimparato più avanti, perché a un professionista serve eccome, dalle orchestre alle sale d’incisione passando per le jam fra jazzisti. Anche se grandissimi come Django Reinhardt e James Brown la musica non la sapevano leggere. Ma la sapevano fare”. Nel mentre tutto stava già accadendo, live, tra sogno e realtà: “Con un trio ho cominciato a suonare pezzi dei Grandfunk Railroad. Ho frequentato il Centro Studi Musicali di Nino Donzelli a Cremona nel 1979, cominciando al tempo stesso a far parte del quintetto di Gianni Cazzola e allacciando una collaborazione con Pietro Tonolo. 

Conoscenze importanti che avevo fatto frequentando il seminario di Giorgio Gaslini a Milano. Nel frattempo mi sono avvicinato al jazz tramite i Chicago e Brian Auger, mi piacevano molto Blood, Sweat & Tears…”. Negli anni Ottanta, la svolta: Gibellini, che intanto si è già fatto un nome tra i migliori virtuosi italiani, decolla al fianco di giganti come Lee Konitz, Mel Lewis, Sal Nistico e Steve Grossmann, Gianni Basso e Larry Nocella, Lew Tabackin e Jimmy Owens; nel 1984 approda alla tivù di Stato, zona big band della Rai di Milano: d’amblé al fianco di artisti come Gianluigi Trovesi (altrettanto ospite su queste gaudenti pagine), Sergio Fanni, Leandro Prete. Ne sarà parte integrante fino al 1991, militando poi nel quartetto di Tullio De Piscopo, con cui partecipa ai festival jazz di Sanremo, di Roma, e a Umbria Jazz, sconfinando anche in collaborazioni extra jazz, con Mina, Bruno Lauzi, Fabio Concato. E ancora, scollinati gli anni Novanta: il quintetto “Reunion” insieme a Franco Testa, Pietro Tonolo, Danilo Rea e Roberto Gatto, la “Keptorchestra”, una big band con Pietro e Marcello Tonolo e altri fuoriclasse come Marco Tamburini, Roberto Rossi, Mauro Negri, Bruno Marini, fino all’esordio a proprio nome impresso nel disco “Felix”, con Piero Leveratto e Alfred Kramer. Poi, il mondo: Stati Uniti, Cuba, Irlanda. Gibellini suona ovunque, ma a suo dire non così spesso. Non quanto avrebbe voluto. “All’estero mi sarebbe piaciuto suonare molto di più. C’è un altro spirito, un’altra attitudine. L’inglese l’ho sempre parlato così e così e questo è un altro grande rimpianto. Ma con la musica ti fai capire bene dappertutto”. Così, mentre al Portobello gocciolano cartoline notturne d’antan – dal Capolinea di Milano a certi localetti fumosi di corso Mameli, in città, passando per un legendary concert al Cinema Moretto, sempre a Brescia, con gli Area e i Nucleus insieme sullo stesso palco – Gibellini spazia verso altre latitudini. Non solo di ieri, ma anche di oggi e di domani. Talvolta con un filo d’amaro retrogusto: “Diciamoci la verità, il 99% della musica che passa in radio è orribile. Ma ovviamente i bravi artisti ci sono, eccome: Neffa ad esempio è uno che mi piace. Anche Samuele Bersani. La trap non è nelle mie corde – sorride sardonico – eppure la scena non è male, c’è fermento. Quando posso però preferisco ascoltare Fats Waller, Rossini, Bach, Donald Fagen…I cantautori? Anche: Dalla, Gaber, Battisti, ma non parlatemi di Battiato, dirò una cosa impopolare ma ho sempre pensato che fosse un bluff pazzesco” (pace all’anima del maestro).

“Una cosa mai detta sulla mia musica? Ho un immaginario cinematografico. Da Fred Astaire a Woody Allen, i film mi hanno ispirato. E mi ispirano sempre”.

Del resto, si definisce “un amante dei miscugli”. Fra le arti, fra i generi, fra i linguaggi. E da buon maestro a sua volta – insegna privatamente e ha tenuto seminari a fianco di musicisti come Kenny Barron, Carl Anderson, Buster Williams, Ben Riley, Rachel Gould, Rufus Reid, Jimmy Cobb, Mulgrew Miller – Gibellini varcati i settanta in grande stile non lesina consigli: “Prima però vi svelo una cosa…non sopporto quando i cantanti cantano con i testi davanti. Come fai!? È come se un attore recitasse Shakespeare col fogliettino davanti. Vale anche per i musicisti: se suoni uno standard, perché devi leggere gli accordi. È una questione di rispetto per la musica, il discorso che facevo prima. E poi che divertimento c’è a suonare con uno che guarda il tablet? Agli allievi faccio una testa così per questa cosa. Allo stesso tempo dico loro che la bravura non basta: il talento è indispensabile, ma è niente senza lo studio, la disciplina. Io rimpiango anche questo: in certi periodi non sono stato costante con lo studio. Perché la differenza fra noi italiani e i musicisti americani è proprio questa. Loro studiano come matti. Oggi vivere di musica è complicato, ma non serve abbattersi: bisogna solo essere più bravi di una volta”.