Oggetti inanimati. La fruttiera di Moretto e la fortuna delle nature morte.

Testo: Mauro Zanchi

 Layout: Valeria Savio

Alessandro Bonvicino, detto il Moretto, dipinge Madonna in trono col Bambino tra i santi Eusebia, Andrea, Domno e Domneone attorno al 1536-1537, nel primo altare destro della chiesa di Sant’Andrea in Bergamo. Alla base della sacra conversazione, sul pavimento a motivi geometrici, è posata una fruttiera metallica colma di pere. Il dettaglio posto in primo piano cattura lo sguardo dei fruitori, perché è meticolosamente descritto e di pari grado rispetto alle figure dei santi, sembrando un soggetto a sé stante che precorre la Canestra di frutta di Caravaggio, dipinta tra il 1597 e il 1600 e ora conservata nella Pinacoteca Ambrosiana di Milano. Nell’iconologia cristiana cinquecentesca la pera è solitamente tenuta in una mano da Maria o da Gesù bambino, a significare un frutto salvifico, dal succo dolcissimo, che si contrappone simbolicamente alla mela del peccato originale: Dio si è fatto carne in Cristo per offrire ai fedeli cattolici il frutto della salvezza, ovvero la possibilità di risorgere e di vivere in eterno nell’Eden perduto. La fruttiera colma di pere presente nella tela di Moretto è una inserzione naturalistica che in pittura o nella miniatura europea si è affermata a partire dal tardo Trecento, per divenire poi nel corso del Quattrocento un soggetto distintivo soprattutto dell’arte fiamminga. Ma nella tradizione italiana dettagli simili a nature morte sono già presenti nelle scene dell’Annunciazione, dove compaiono vasi contenenti gigli, al contempo stilleven (“natura silenziosa”) e rimandi alla purezza immacolata della Vergine. Alcuni primi esempi di questa tipologia sono l’Annunciazione  (1185 ca.) di Bonanno Pisano, formella bronzea nella porta del Duomo di Monreale, l’Annunciazione (1296) di Pietro Cavallini, nella Basilica di Santa Maria in Trastevere in Roma, l’Annunciazione dipinta da Duccio di Buoninsegna attorno al 1311,  ora alla National Gallery di Londra, l’Annunciazione (1333) di Simone Martini e Lippo Memmi, conservata agli Uffizi.

Ma possiamo arretrare ancora nello spaziotempo della storia dell’arte e trovare molti altri esempi di still life o “oggetti di ferma” documentati nell’arte romana: nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli sono conservati affreschi con nature morte provenienti da Pompei e da Oplontis, datati al 63-79 dopo Cristo, mentre nel Museo Gregoriano Profano (Città del Vaticano) sono presenti i pavimenti musivi del II secolo d. C., raffiguranti oggetti e cibi gettati a terra durante un banchetto, tipologia di soggetto definito “stanza non spazzata”, ispirato ai mosaici di Soso da Pergamo, attivo nel II secolo a.C.

Quindi abbiamo numerosi esempi in Italia della rappresentazione di oggetti inanimati, molto tempo prima dell’affermarsi della natura morta nel XVII secolo come genere artistico autonomo, ovvero con oggetti che divengono soggetti principali del quadro e non più soltanto come contorno descrittivo o corollario simbolico.

Nulla nasce ex abrupto. La fortuna seicentesca della Natura morta e dello Still Life è favorita, oltre che dagli artisti del primo Cinquecento che inseriscono nei loro dipinti canestre di frutta o vasi di fiori come dettagli di contorno o presenze simboliche, dalle ricerche dei manieristi del secondo XVI secolo, sollecitati a rinnovare l’iconografia della pittura devozionale negli ambienti della Controriforma, lavorando sulle rappresentazioni allegoriche allusive alle stagioni, agli elementi, al tema moralistico della vanitas vanitatum.

In Italia, nelle opere tardocinquecentesche del cremonese Vincenzo Campi e del bolognese Bartolomeo Passerotti prendono via via sempre più spazio parate di verdure, frutta e animali – si vedano La Fruttivendola (1580) e  La Pollivendola (1580), ora entrambe alla Pinacoteca di Brera, La Macelleria (1580 circa), conservata a Roma presso la Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini – ormai svincolate dai temi religiosi o letterari, quasi in parallelo con gli studi scientifici tardorinascimentali, spinti da una continua classificazione sistematica della natura dovuta alle nuove scoperte geografiche, come per esempio nelle grandi enciclopedie naturalistiche illustrate di Konrad Gesner e di Ulisse Aldrovandi. Un trentennio prima di Campi e di Passerotti, in Olanda e nelle Fiandre, Pieter Aertsen e Joachim Beuckelaer avevano già elaborato autonome descrizioni di mercati o di interni di cucina, ovvero “nature morte invertite”: le bancarelle di opulenti mercati, macellerie e cucine ben fornite, prendono sempre più spazio – si veda per esempio  Una bancarella di carne con la Sacra Famiglia che fa l’elemosina (1551), ora a Raleigh, nel North Carolina Museum of Art -, tanto che le figure umane iniziano a perdere peso compositivo e la scena religiosa narrata viene rimpicciolita e relegata in secondo piano o sullo sfondo.

Abbiamo detto precedentemente che la pittura di cose inanimate (in Italia venivano chiamate anche “oggetti di ferma”) entra sempre di più nelle corti europee e trova il suo apice nel Seicento, tanto che divengono di moda gli stilleven (termine olandese per definire la “natura silenziosa”, da cui prende origine l’inglese still life) sdoganati nel Cinquecento e approfonditi attraverso innumerevoli declinazioni dai pittori.