Conversazioni da Bar,
con Marco Senaldi e Valerio Borgonuovo

testo: VALERIO BORGONUOVO
Fotografie: FILIPPO MARCOLLI — DAVIDE MIOLO — DAVIDE SARTORI — GIUSEPPE REGANO

Tra le tipologie di bar raccolte in questo numero di Moltobene, c’è anche il bar intellettuale, quello frequentato dai filosofi, dove i filosofi filosofeggiano, e che in virtù di ciò diventa un luogo di creazione e di condivisione, anche se poi spesso la conversazione finisce a tarallucci e vino, irrompono i temi del calcio e della musica, e dove per i troppi bicchieri si inizia a sparlare, finché non arriva qualcuno che inaspettatamente risponde con competenza a una questione difficilissima. È un po’ questo il tema che abbiamo voluto trattare con Marco Senaldi e Valerio Borgonuovo, intellettuali e docenti LABA, in questo bar di Brescia, piuttosto popolare e caciarone, L’oste sbronzo, dove ci siamo riuniti in tanti, tra membri della redazione e non, un po’ come una riunione di famiglia più che di una scuola, e dove un po’ per caso e un po’ per sceneggiatura ci siamo trovati stasera. Come iniziare a filosofeggiare intorno al tema spetta ora a loro.

Quando la lezione inizia nella ricreazione

Marco Senaldi: Se posso rompere il ghiaccio, non so se conoscete un libro di uno dei filosofi che personalmente amo di più, Søren Kierkegaard, che si intitola In vino veritas, in cui si ricorda come la verità spesso non emerga nei momenti ufficiali, ma piuttosto durante i pranzi, o al bar. Perché il vino è spirito, e lo spirito è il protagonista della filosofia. Uno spirito che aiuta la discussione. Ecco, la verità, che è qualcosa che non devi mai affrontare direttamente ma sempre indirettamente, forse è più facile che esca in una riunione di questo tipo piuttosto che in una situazione istituzionale. Per cui in sostanza il bar per me è un luogo di verità.

 

Valeriano Iosca: Ma lo è ancora?


Marco Senaldi: Sì, ma dipende dal bar. Ad esempio i bar milanesi, dove hanno inventato questo neologismo che è l’«apericena», spesso assumono il ruolo della messa in mostra di sé e per questa ragione diventano luoghi di finzione. A differenza dei bar romani che alle 11.30, quando tutti lavorano, sono pieni, e più che il vino il protagonista è il cappuccino con il maritozzo, ritualizzando un’altra dimensione, quella della gioia sensuale – che però è altrettanto effimera. Per me, invece, che sono il classico studioso solitario, che trascorre molto tempo seduto a scrivere davanti al computer, quando un amico mi invita al bar, quel momento conviviale diventa per me un’occasione vera di incontro e conoscenza.

Vallio è anche il paese dei canti d’osteria, un’antica tradizione diventata una rassegna di culto che ogni anno attira migliaia di persone e “tenori” infiascati da tutta Italia.

Valeriano Iosca: Io però quando penso ai bar nella storia dell’arte, nella letteratura penso sempre alle atmosfere dei bar francesi di fine ‘800 frequentati da Rimbaud, Baudelaire…

 

Marco Senaldi: Sì, però ti devo dare una brutta notizia. Un giorno a Parigi mi portano al Café de Flore e mi dicono che fu frequentato da Sartre, ma quello che trovo è un bar pieno di turisti, tutti lì a cercare il tavolo di Simone de Beauvoir e di Sartre… Insomma un posto tristissimo, perché mitizzato, turisticizzato. E lo stesso vale per il ristorante La Coupole, tutti a cercare qualche traccia di Dalì, che lì andava spesso, ma di cui non resta più niente, solo turisti! 

Altre voci s’affollano. 

 

Elia Zupelli: Come per il Cabaret Voltaire a Zurigo, che continua a essere luogo di pellegrinaggio, anche se il cabaret in realtà non c’è più.

Marco Senaldi: Esatto, e la lezione che dobbiamo trarre da ciò, è di non essere più nostalgici, ma vitali, di essere il nostro presente, e il nostro presente sono i bar periferici, laterali, apparentemente insignificanti – dove può succedere ancora qualcosa.

Alla fine noi abitiamo più dimensioni, quella del discorso, della convivialità, dei media, però se non abbiamo lo spazio per incontrarci, sia esso perfino uno spazio mediale, se viene a mancare un contesto nel quale accada qualcosa, allora cessa ogni relazione

Valerio Borgonuovo: Sì forse c’è da dire che nel passaggio dalla Modernità alla Postmodernità il bar popolare è sopravvissuto a quello intellettuale, quello dei Macchiaioli. Giubbe Rosse a Firenze per intenderci. Penso alle storie che una volta mi ha raccontato il fotografo di mostre Massimo Piersanti sul Bar Rosati di Roma alla fine degli anni ’60 con la motocicletta di Pino Pascali parcheggiata fuori; la stessa su cui ci muore a soli 33 anni, in un’epoca in cui i bar sopravvivevano ancora ai loro frequentatori abituali, cosa sempre più rara oggi.

 

Marco Senaldi: Sì perché… i luoghi della cultura sono problematici. Sovente pensiamo che il luogo sia neutrale, che non sia veramente importante ai fini del dibattito, e invece l’esperienza ci racconta che non è così. E non può essere diversamente. Alla fine noi abitiamo più dimensioni, quella del discorso, della convivialità, dei media, però se non abbiamo lo spazio per incontrarci, sia esso perfino uno spazio mediale, se viene a mancare un contesto nel quale accada qualcosa, allora cessa ogni relazione… Storicamente, c’è sempre stato un luogo simile, i salotti nel Settecento, il bar dei Macchiaioli nell’800, le bettole di Caravaggio, Il Bar Jamaica a Milano… Una volta ho intervistato il designer Ugo La Pietra, una persona che ha conosciuto Fontana, Manzoni, e che mi ha detto: «ma tu ti rendi conto che negli anni Cinquanta tutti gli artisti di Milano stavano in un bar?», intendendo dire che ci stavano innanzitutto fisicamente. E quel bar era il Jamaica, vicino a una via che oggi infatti è intitolata a Piero Manzoni. E questo ci pone davanti a un problema, ovvero quello di ricostruire questa relazione. Confesso che oggi fatico a pensare e a trovare qualcosa di simile. Recentemente sono stato a Kassel a vedere Documenta. Ho preso la mia vecchia Audi e mi sono fatto le mie 10 ore di autobahn e quello che ho trovato era… niente! Le opere non c’erano, perché non c’erano artisti ma collettivi, ma c’erano i risultati dei loro incontri, degli atelier, un pò come stiamo facendo adesso noi, però c’era anche qualcosa di un pò artificioso perché come fai a riunire a Kassel un collettivo indonesiano, cileno, messicano, del Nordeuropa? Bisogna senz’altro ripensare i luoghi della cultura. Io penso che il metaverso potrebbe essere interessante, però c’è anche un Universo, dentro cui siamo ancora in carne e ossa.

 

Altre voci s’affollano


Luigi Bracchi: Senz’altro, in questo senso dobbiamo interpretare il metaverso come un allargamento degli “universi”, perché se è qualcosa che viene dopo il verso allora viene dopo l’Universo. Chiaramente senza dimenticare che siamo entità incarnate che bevono vino anche per schiavardare la lingua. Il metaverso è una cosa altra dallo spazio fisico.

Ma al di là dell’ubriacatura, noi non siamo abituati a questa cosa, ci stiamo dentro.

Chi nasce oggi, le nuove generazioni sono altra cosa da questi discorsi, e dovranno capire che quello che stanno facendo non è la realtà fisica

è una realtà diversa.

Diego Ruggeri: Ascoltandovi mi è venuto in mente un libro di Jean Guitton, Dio e la Scienza Verso il metarealismo, in cui l’autore conversa con due scienziati che si occupano di fisica quantistica e c’è un momento in cui Guitton dice che nonostante tutto l’uomo dovrà continuare a gestire l’essere in carne e sangue, e che per questa ragione dovrà imparare a gestire il rapporto tra la tecnologia, la scienza, che corrono velocissime, che si sviluppano in modo esponenziale, e il corpo umano che invece è lento e ha sempre bisogno di un tempo che non è contenibile.

Marco Senaldi: Sono completamente d’accordo. Secondo me abbiamo commesso un peccato di gioventù…

Giuan (L’oste sbronzo): Sono pronte le costine al forno!

Marco Senaldi: …ecco appunto… dicevo, secondo me abbiamo commesso un peccato di gioventù pensando che ci fossero delle nuove agorà digitali come fossero nuovi bar diciamo, che ci sono piaciuti tanto ma la cui ubriacatura digitale…

Diego Ruggeri: …ma avete sentito di questo ragazzo e di questa signora che hanno iniziato a scambiarsi messaggi, anche hot, e a un certo punto hanno deciso di incontrarsi?! Erano madre e figlio.. io questa cosa l’ho trovata bellissima!

Marco Senaldi: …sì intendevano… dicevo, la cui ubriacatura digitale ci stiamo rendendo conto che forse ora va lasciata alle spalle.

Luigi Bracchi: Ma al di là dell’ubriacatura, il punto è che noi non siamo abituati a questa cosa, ci stiamo dentro. Mentre chi nasce oggi, le nuove generazioni sono altra cosa da questi discorsi, e dovranno capire che quello che stanno facendo non è la realtà fisica, è una realtà diversa. Dovranno capirlo all’incontrario da quello che stiamo facendo, dovranno ricominciare a vivere all’inverso.

Marco Senaldi: Lo confermo anche da genitore, dovranno tornare a fare cose, dovranno tornare sulla Terra e alla terra: sarà un ritorno difficile, però io ho fiducia, perché in aula a lezione, dopo questi anni difficili, vedo un coinvolgimento che non c’era mai stato prima.

Altre voci s’affollano

Emanuela Zanchetta: Però, se penso a Camozzi che sta costruendo le case per la Luna…

Luigi Bracchi: Sì, e questo conferma quanto stiamo dicendo, ovvero che anche se nel metaverso non ti bagni, costruire case sulla Luna rimane innanzitutto una questione fisica, materiale, progettuale.

Valerio Borgonuovo: In fondo, se ci pensate le attitudini e le abitudini delle nuove generazioni non si discostano poi così tanto dalle nostre. Frequentano i bar come abbiamo fatto e come tuttora facciamo. Sta a noi trasmettere loro il potenziale pedagogico delle cosiddette “scuole di vita” come lo sono stati e possono ancora esserlo i bar, evitando sospetti, ma anzi riscoprendo insieme la storia di questi luoghi e la loro dimensione spontaneamente didattica e formativa. In questo senso oggi la LABA sta abbracciando un format educativo che può essere rivoluzionario perché si poggia su questa consapevolezza istituzionale che altre scuole ignorano. 

Diego Ruggeri: Sapendo che oggi vi avrei incontrato, ieri mi sono riletto un po’  Il Simposio di Platone che scrive: «Perché ciò che è vero è giusto ed è bello». Rispetto al metaverso, ritengo che oggi ci sia il rischio di vivere una messa in scena enormemente pericolosa a causa della distanza cosmica tra quello che stiamo facendo ora qui e l’ambiente del metaverso. Mi chiedo dunque se questo luogo virtuale di incontro sia un luogo di assenza, di messa in scena per l’appunto o di altro, e quali siano le conseguenze.

Emanuela Zanchetta: A proposito di Platone, non posso non pensare all’epitaffio sulla tomba di Marcel Duchamp: «Di solito a morire sono sempre gli altri»! Una sentenza tanto vera e giusta, quanto bella. All’altezza del Simposio di Platone direi.

Marco Senaldi: Duchamp è meraviglioso, lui non andava mai alle inaugurazioni però una volta che lo invitano ci va per dire «Buongiorno, scusate ma stasera non posso venire». Quando insegnavo in un liceo di provincia inventammo un caffè letterario al quale invitare ospiti come il filosofo Umberto Curi che allora aveva scritto un manuale di filosofia per la scuola. Al suo arrivo, mi chiese con preoccupazione se fosse proprio quello il posto dove avrebbe tenuto l’incontro, visto che tutti prendevano il caffè o facevano altro. Andò veramente in crisi! E invece, alla fine del suo intervento era felicissimo perché c’era stata una vera e propria compartecipazione degli studenti. É lì che mi sono chiesto: ma perché invece di fare tante lezioni e qualche incontro letterario non facciamo tanti incontri letterari e qualche lezione? Perché i ragazzi assimilavano molto di più in un incontro che in tante ore di lezione! 

Valeriano Iosca: Infatti, storicamente i maestri di vita, non di scuola, si incontrano al bar. Per me è stato un pò così. Quando con Diego (Ruggeri) abbiamo iniziato a costruire questo numero abbiamo scoperto che molti dei bar che frequentavo non esistono più, i figli degli storici proprietari non hanno voluto proseguire l’attività e i bar sono stati venduti a gestori cinesi, i quali si sono dimostrati anche bravi e diligenti, ma l’idea, quella originaria era sparita. Il bar si elegge, è un luogo che si elegge in qualche modo, per caso sono arrivato a quei posti e ho iniziato a frequentarli, e anche l’elezione del luogo è una cosa un pò strana, magica…

Marco Senaldi: …non segue delle leggi. Ma se ricordi, tu che sei stato un mio allievo in Accademia Carrara a Bergamo, il bar vicino all’Accademia era un luogo dove chiacchieravo con te, con Mario Cresci, e con tante altre persone… purtroppo questi luoghi sono venuti a mancare e oggi sappiamo che non possiamo costruirli artificialmente. 

Valerio Borgonuovo: Sì, il problema è che non li possiamo fare questi luoghi, devono esserci.

Luigi Bracchi: Sì perché il luogo ha bisogno di tempo per diventare tale, ha bisogno di sedimentazione, di persone che lo caratterizzino, tutte cose che non vanno d’accordo con l’accelerazione e l’omologazione di oggi che ha creato dei non-luoghi piuttosto che dei luoghi. Oggi ad esempio si pensa che un luogo sia il supermercato, il centro commerciale, ma è un falso.

Marco Senaldi: Difatti lo scorso fine settimana sono stato a Lodi al Festival della Fotografia Etica e siamo entrati in un centro commerciale dove il bar era pieno di gente! Quindi evidentemente la gente ha dei bisogni culturali, ma non sa come soddisfarli. Una questione che in qualche modo ci chiama in causa, chiama in causa noi intellettuali, e chi si occupa di educazione, di formazione, e di arte.

Elia Zupelli: Ma quindi oggi non esistono luoghi fisici legati alla cultura, all’arte dove si sta muovendo qualcosa? Tornando al tema della nostalgia di cui parlavate prima, siete partiti dal passato, dalle avanguardie, passando per il Jamaica negli anni ’50. C’è una ragione particolare per la quale avete invece omesso altre “esperienze” più recenti, che pure avete vissuto, come gli anni ruggenti della “Milano da bere”? 

Valerio Borgonuovo: In un certo senso sì, perché il bar muore col postmoderno e con esso cambia uno specifico modo di essere animali sociali, tribù, clan a favore di un certo modo di apparire individui e di essere individualisti.

Diego Ruggeri: Beh intanto in quel periodo era davvero tutto legato al mondo della moda, della sua messinscena. Negli anni Novanta poi fu proprio Marco (Senaldi) a farmi conoscere la teoria dei non-luoghi di Marc Augè quando ancora non se ne parlava.

Marco Senaldi: È vero, all’epoca invitai Marc Augè in Italia, lo portai anche in tv per un programma Mediaset, Le notti dell’angelo, con una puntata sui non-luoghi. Quando lo portarono dall’aeroporto a Cologno Monzese chiesi se gli andava bene fare l’intervista proprio lì nel parcheggio e lui mi rispose: «Mais oui! C’est un non-lieu de première qualité!» [NdR «Ma sì! È un non-luogo di prima qualità!»] Perché non c’era niente, tutto era impersonale, il non-luogo perfetto.

Elia Zupelli: Quindi, rispetto a quello che dicevamo prima, oggi esistono spazi “altri”, piuttosto che spazi fisici, in cui accade qualcosa? 

Valerio Borgonuovo: È un dibattito molto attuale, se pensi che oggi l’artista lo incontri al bar perché il suo lavoro, il suo atelier sta tutto dentro al suo laptop ti dà da pensare. In ambito di produzione culturale, vorrei spendere due parole anche sul tema del supporto e della fruizione, perché oggi ad esempio viviamo una riscoperta da parte delle nuove generazioni dell’analogico: la rivista, il libro, il disco in vinile, la musicassetta. Una riscoperta tutta fisica che richiede una fruizione lenta, riflessiva, che non vedo perchè non possa includere anche la riscoperta e la frequentazione dei bar come stiamo facendo questa sera. 

Elia Zupelli: Sui luoghi vi chiedo un’altra cosa, legata proprio alle forme di fruizione. Ad esempio sui musei, che sono sempre più luoghi aperti a inglobare nuove esperienze: workshop, incontri, dibattiti, concerti… Qual è la vostra opinione in merito?

Valerio Borgonuovo: I musei, e non solo i musei, dal 1989 al 2022, nel periodo della cosiddetta “Fine della Storia” come ha scritto Fukuyama, si sono sforzati di cercare la Storia, ad esempio negli archivi. Si sono preoccupati solo della Storia, del passato, e della memoria. Ma se è vera l’idea di molti studiosi secondo cui la Storia oggi è ripartita, e provo a focalizzarmi sul nuovo, a catturare lo Zeitgeist, mi chiedo cosa mancherà in futuro? L’identità, la privacy, la possibilità di fuggire e scomparire? Tutti temi proprio di un workshop, magari in un museo… senza dimenticare che i bar e le caffetterie ora sono anche dentro ai musei…

Marco Senaldi: A me questo fenomeno in un certo senso però piace, perché nel bar della Fondazione Prada ad esempio non sai se sei già nella parte museale o in quella ricreativa. Quella distinzione del passato, col silenzio del luogo espositivo separato da tutto il resto, oggi, con la presenza dei bar e delle caffetterie, sembra essere cambiata. Come dicevo prima, lo trovo come un rovesciamento delle proporzioni tra lezione e ricreazione. Perché nel bar del museo inizi a capire e a imparare. Questa sfida parte da una crisi museale e didattica, e le scuole devono iniziare a integrare queste dimensioni. La campanella che scandisce la ricreazione dovrebbe scandire un momento altrettanto formativo. Senz’altro bisogna riaprire le porte del politico all’estetico, laddove il politico non è in grado di colmare un vuoto.

Luigi Bracchi: Una battuta sintetica: l’arte moderna è iniziata con un pisciatoio ed è finita con un water d’oro.

Valerio Borgonuovo: Senz’altro partendo dall’abbracciare un metodo di insegnamento fondato sull’«apprendere facendo» (learning by doing), fuori ma anche dentro le aule.

Marco Senaldi: Sicuramente, perché anche l’aula è un luogo, e anche il docente sta cambiando, deve cambiare, oggi si parla di docente-guida anziché di docente-depositario del sapere, come lo era in passato, perché oggi è la rete a essere la depositaria del sapere. E la guida che offre il docente deve essere comunque autorevole, perché anche se la nuova generazione è quella dei nativi digitali, resta il fatto che i giovani non nascono preparati a questo mondo, alle sue insidie, che forse noi conosciamo già. Non è una questione di abdicare il nostro ruolo, perché qual è il ruolo? Cosa significa questa parola?  

Valerio Borgonuovo: Sono d’accordo. Anche per questa ragione, pur insegnando materie propriamente teoriche, da quest’anno chiedo loro di lavorare in gruppo con me in aula staccandosi dai dispositivi digitali e dalla rete, per cimentarsi in una serie di “esercizi di sguardo” e di produzione critica sulle immagini, in cui il classico momento di lezione frontale viene ricalibrato secondo una economia dell’attenzione più adeguata e orientata alle caratteristiche degli studenti.

Marco Senaldi: Ciò che era sperimentale ieri deve essere oggi la routine.

Valerio Borgonuovo: Esatto, mi viene in mente quel lavoro di Gianni Pettena del 1971, Wearable Chairs, in cui il designer invitava i suoi studenti del Minneapolis College of Art and Design a uscire dall’aula cercando nella città il posto preferito dove potersi finalmente accomodare su sedie-zaino autoprodotte e leggerissime indossate sulle spalle. Credo che oggi più che mai l’insegnamento sia ascolto e adattamento.

Marco Senaldi: Quindi va bene guardare anche al passato, purchè sia guardato senza nostalgia ma per ripensare il presente.

Altre voci s’affollano. 

Roberta Bilancini: Su queste considerazioni, vi chiedo cosa domandereste all’Accademia di oggi, alla LABA?

Valerio Borgonuovo: Beh… Provo a rispondere io? Innanzitutto favorirei una sempre maggiore interazione della scuola nella città, con la città. In questo senso l’Accademia dovrebbe all’occorrenza rendersi itinerante, immateriale, fenomenica, e perchè no comportarsi come un’agenzia capace di dare il proprio contributo alle esigenze cognitive e tecniche di innovazione e comunicazione espresse da clienti esterni. Anche perché Bergamo e Brescia Capitale della Cultura 2023 terminerà, e per questa ragione bisognerà pensare fin da subito come fare tesoro di quanto stiamo costruendo, magari con un programma estivo di alta formazione rivolto a professionisti operanti anche in altri ambiti da quello della cultura, secondo quell’idea di educazione permanente su cui dovremmo altrettanto investire… 

Mi pare però che stasera, da questo bar, l’orizzonte verso cui rivolgersi sia più chiaro a tutti.