Cameriere, Champagne! Alla salute del Luci d'Alba, il pianobar dell'impossibile.

testo: ELIA ZUPELLI
Fotografie: GIULIA MARTINELLI

Da quarant’anni in una viuzza di Padenghe, indicato dall’iconica insegna al neon, esiste e resiste un locale dove il tempo si è fermato: varcata la soglia, tra velluti, quadri, specchi e orpelli amorevolmente kitsch si schiude una specie di labirinto scarlatto con divanetti alla Dario Argento (qualcuno infatti giura di averci visto i fantasmi). Lunghi capelli bianchi e basette affilate, Franco Antonioli, musicista e storico titolare, ogni sera è il maestro di cerimonia, suona e canta insieme al fratello Guido, batterista; fra i clienti habitué di allora un altro mitologico Franco: Califano. Oggi il locale è leggenda anche sui social: “Se lo vede Tarantino ci gira minimo una trilogia”.

Aurore boreali, chimere by night, serate infinite destinate a eclissarsi alla luce del sole, sfumando incontri impossibili e languide serenate tête-à-tête. Il pianoforte scivola, s’insinua fra i divanetti, serpeggia elegante e peccaminoso fino al bancone: la scelta può ricadere su innocenti evasioni allo Champagne, oppure su un Whisky Sour fatto come dio comanda, con la ciliegina candita che sprofonda in mille riflessi, oppure ancora sul cocktail della casa, a base di Gin e solo apparentemente innocuo al primo sorso. E poi al secondo, al terzo, al quarto e così via. Fino a diventare complice di tutto quello che accadrà poi. La poetica d’antan del piano bar “Luci d’alba” – indicato con garbo dalla mitologica insegna neon a luci rosse, in una viuzza sfuggente nel cuore di Padenghe – si deve senz’altro a tutto questo eppure il nome non ha accezione immaginifica ma rigorosamente anagrafica: Luci d’Alba – sì, proprio così: Luci d’Alba, per esteso – era infatti il nome più unico che raro della madre di Franco Antonioli (leggenda narra che in Italia solo due donne riuscissero a portarlo con disinvoltura: l’altra era una suora di Garda).

Ex ciclista in gioventù, ex sarto, musicista on the road con proiezioni scandinave tra gli anni Sessanta e Settanta, quindi, per strani destini della vita, dal 1982 mente, cuore, anima, spirito guida e deus ex machina di un locale che trasuda memorie in penombra e storie di velluto cadenzate dal tintinnio dei cubetti di ghiaccio. Ieri, come oggi. Sull’orlo dei quarant’anni vissuti con un ritmo fluente di vita nel cuore (i festeggiamenti si stanno celebrando proprio in questi giorni e nel downtown l’estasi è collettiva), le “Luci d’alba” non accennano ad affievolirsi. Al contrario, scorrono ancora soffuse ogni sera, ogni giorno della settimana, senza soluzione di continuità e di generazioni, dai veterani della stagione yuppie ai frequentatori in erba, attratti dalle peripezie dell’arredamento e dell’atmosfera, dai dettagli amorevolmente kitsch che rilanciati su Instagram fanno faville, da quel senso estetico così caotico, avvolgente e pure un po’ misterioso che inesorabilmente finisce per rapire anche lo sguardo più scettico e perfettino. Oltre le mode, oltre tutto. Persino oltre la razionalità: in molti, specie dopo le tre di notte e il quinto giro, giurano di aver visto aggirarsi spettri e fantasmi.

Poi, lui.

Entità non meno ectoplasmatica: lunghi capelli bianchi liscissimi sulla schiena, basette affilate ma occhi dolci, il maestro – ottanta primavere scollinate in Sibemolle – ha plasmato un locale a sua immagine e somiglianza, dove non esistono regole ma solo eccezioni. E dunque appena varcata la soglia d’ingresso e percorsa la ripida scalinata, ecco apparirne la sagoma totemica accomodata a un pianoforte del 1863 allora “scolpito” per i concerti dell’Arena di Verona e proveniente dai costruttori della famiglia Reale; qualche nota per sgranchire le falangi, poi subito incalza il ritmo jazz: alla batteria sul soppalchetto, nascosto da solo, s’intravede in penombra il fratello Guido, di una decina d’anni più giovane e ancora bello lanciato nel mandare baci laconici e dedicare sguardi dongiovanneschi alle sue muse; Francy, figlia di Franco, si divide invece tra la composta baraonda del bancone bar, dove dispensa liquida joie de vivre, e il microfono, sfoggiando una voce suadente e insieme graffiante. 

Anche le canzoni interpretate dal maestro sono le stesse da quarant’anni ma la voglia di cambiamento e rinnovamento o peggio ancora le e velleità figlie della trita e ritrita retorica “fra tradizione e innovazione” – vivaddio! – restano fuori dalla porta. Al Luci d’Alba è un’altra storia. Incisa negli angoli più sfuggenti, raccontata sottovoce dallo stesso Antonioli: “Rientrato in Italia dopo quasi quindici anni in Finlandia, dove suonavo con musicisti di tutto il mondo, decisi di acquistare questo posto nonostante fosse un rudere. Aveva qualcosa di magico. Vista la bizzarra conformazione della struttura, assieme a mio fratello e a una piccola squadra lavorammo direttamente per tirarlo a nuovo: scavammo e lo svuotammo lavorando senza sosta per mesi; poi progettammo direttamente le poltrone, le lampade e il bancone; abbassammo le nicchie, lo riempimmo di quadri, tutti dipinti da mia figlia. Da allora non è più cambiato” ribadisce fieramente il maestro. Altri flashback scorrono come diapositive: la sua prima chitarra acustica è ancora oggi custodita tipo reliquia nella sala inferiore, cuore pulsante del Luci d’Alba. La scintilla della passione, polistrumentale e radicale, s’accese fatalmente e la musica cominciò ad irradiarsi per riflesso: “Proprio come allora amo suonare le grandi canzoni italiane, da Gino Paoli a Rino Gaetano, ma anche i classici di Frank Sinatra e Santana, un mito assoluto. Ai tempi d’oro veniva spesso anche Franco Califano, ma lui non voleva essere disturbato, figuriamoci se gli interessava cantare o duettare con me: aveva altro da fare”.

Se telefonando io potessi dirti addio (oppure bermi un drink): il Califfo, e come lui migliaia di altri habitué, durante una miriade di notti per ordinare da bere alzavano la cornetta. Letteralmente. Approfittando dei comodi telefoni che ancora oggi campeggiano a fianco di ogni seduta, ennesimi cimeli di una sciccheria che profuma di foulard, resine e patchouli. “Da qualche tempo purtroppo abbiamo deciso di scollegarli, era diventato troppo complicato gestire tutte le ordinazioni” allarga le braccia il maestro, quasi a scusarsi, mentre la figlia intona elegantemente “Somewhere Over the Rainbow”: tira aria cinematografica, scene di un film che s’intitolerebbe “Vita da romanzo”. Intanto un’altra serata sta per iniziare o per finire, chissà. Franco s’accomoda al pianoforte, il buio si fa strada ma è vivido e traslucido, orfano del fumo delle sigarette, altro vizio perduto per strada: 

“Come immagino il Luci d’Alba tra quarant’anni? 

Non saprei, lo lascio immaginare a voi”.